012. I Am I Be
Siamo arrivati fino a qui.
Siamo arrivati a vedere che ci sono due Americhe. Continuando ad osservarle dalla finestra dell’hip hop in questa seconda parte del vagabondaggio la linea del tempo è quella più contemporanea.
Che poi… contemporanea. Il dibattito che solleva 9th Wonder è abbastanza strano: dobbiamo prendere atto della differenza generazionale e decidere che ci debbano essere due diverse scatolette per l’hip hop (ovvero quello che viene portato avanti da artisti più maturi e quello che viene invece rappresentato dalle nuove leve) oppure è tutto hip hop?
Q Tip afferma che sia tutto hip hop.
C’è un bell’articolo di Ebony che prende in esame una sorta di punto zero.
One of the earliest rap releases highlighting the generational schism of hip-hop listeners in the new millennium is The Grind Date by De La Soul. Its October 2004 rollout was the first time I’d heard fans coin the term “dad rap” because the album’s themes and fixations were adult themes and fixations. As Kanye West established a new, lasting hip-hop aesthetic for younger rap fans with The College Dropout that year, De La’s solid album primarily appealed to those who grew up on their 3 Feet High and Rising debut in 1989—many of whom were parents and/or homeowners with 401K plans by 2004.
Già, De La Soul.
Una pagina importante per il genere, per la storia di questa cultura che, ai tempi, nel mainstream veniva chiacchierata quasi solo sulle direttive del gangsta rap (che era quello che “vendeva”) e che propone qualcosa di diverso, inaspettato e spiazzante. E di conseguenza male interpretato dal mainstream che non ha punti di appoggio sulla Daisy Age e quindi si arrabatta come può per parlare di una cosa che nonostante il mainstream stesso diventa importante.
De La Soul, quindi, e il collettivo che fa capo a loro: Native Tongues.
Fuori dai giri gangsta ma dentro i giri che contano per la cultura, soprattutto quando alla divisività opponi il gruppo, il talento e la necessità di mettere in luce le qualità degli altri. Come hanno fatto. Con Mos Def e J Dilla semplicemente ospitandoli nei loro lavori. Giusto per sottolineare come il concetto di Nazione di Afrika Bambaataa non fosse affatto superato, di come “il gruppo unito” sia sempre più forte delle singole parti.
Native Tongues come assoluti pionieri di un suono nuovo nell’Hip Hop preso dalle sollecitazioni di New York e portato, attraverso l’uso di concetti astratti e decisamente di ampie vedute, a rappresentare qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse in qualche modo distanziarsi dalle tematiche del gangsta rap. L’immagine di De La Soul è fortissima: colori fluo, l’aspetto che è quello dei ragazzi in gita scolastica, l’attitudine da nerd e quelle margherite, indimenticate, del movimento Hippie. La musica, come direbbe qualcuno, spacca ma il messaggio viene assorbito solo in maniera parziale perché già nel 1989 non era semplice far passare la complessità.
Una percezione parziale del messaggio, perché emerse la parte più distante, con più contrasto rispetto a quello che ci si aspettava dal rap degli anni ‘90.
Questa percezione parziale del messaggio diventa un boomerang per i De La Soul. Ancora una volta un immaginario semplificato che, a conti fatti, non tiene assolutamente in conto che quei colori, quell'immagine siano semplicemente la didascalia del loro concept: “D.A.I.S.Y”.
Daisy, margherita, intesa allora come l’Era hippy aveva tutt’altro significato. Innanzitutto fu inserito sempre dai De La Soul come acronimo e il suo significato è sempre stato “DA Inner Sound Y’all” ovvero “Il suono dentro tutti voi” che è una cosa che con la cultura hippy non c’entra nulla, ma semplicemente riassume il manifesto del trio: comunicare la potenza delle parole, l’importanza di rimanere coerenti e il grande valore della creatività e dell’espressione. Al movimento hippy c’è sempre stato solo un omaggio. I tre hanno tentato di spostare e correggere il tiro con l’immagine data poi nel secondo disco sulla cui copertina le margherite sono riverse insieme al vaso che le contiene in un’immagine che ne rappresenta la morte. In favore del messaggio che continua nella stessa direzione ma con un’immagine diversa.
Oltre a questo, fino all’uscita di “Three Feet High And Rising” il suono nel rap si affida a campionamenti presi dal soul degli anni ’60 e ’70, in particolare saccheggiando il funk di James Brown, Bobby Byrd, Maceo Parker, insomma la musica dei puristi. De La Soul invece va a inglobare nel proprio suono Billy Joel (Plug Tunin’) e Hall & Oates (Say No Go), Steely Dan (Eye Know), andando quindi a inglobare la musica bianca.
Poi nel corso della loro carriera hanno tempo di sistemare questa cosa, di dimostrare mettendo i puntini sulle i che loro sono hip hop, che loro sono quelli che il conscious rap lo hanno inventato, che hanno idee in contrasto allo status quo e che non hanno paura di metterle in piazza come quando entrano in pieno nel dissenso verso quello che il 45esimo Presidente americano combina a piede libero.
Ma anche in occasione del loro ritorno in grande stile, della loro musica ritornata ad essere disponibile dopo decenni di battaglie su diritti contrattuali, della grande tragedia di una colonna del gruppo che è venuta a mancare, alla fine ancora oggi di tutto questo sembra essere rimasto solo uno dei loro dischi. Quello che in apparenza è il meno impegnativo da ascoltare, quello che in apparenza è quello allegro, spensierato, estremamente hippy. Ma che è stato soltanto l’inizio di qualcosa che è davvero grande anche se quasi nessuno te ne sta parlando.
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