007. RAISING HELL
Prima di entrare nell’argomento di questa volta, c’è un disco che sta per uscire e che ha già attirato la mia curiosità.
Le aspettative per il nuovo disco di Rapsody, a cinque anni di distanza da Eve, sembra confermare che lei stia giocando un campionato tutto suo nel quale c’è spazio per quello che ha intenzione di esprimere e che anticipa con Stand Tall
Nel panorama musicale attuale è passato un po’ sotto i radar per via delle solite ritrite speculazioni sul fatto che esca o meno il capitolo di ‘Vultures’ di Kanye (che ormai chissenefrega) e della piccola scaramuccia di J Cole che risponde (!!!) a Kendrick Lamar per poi ritrattare tutto commettendo un grandissimo errore di comunicazione che - sinceramente - non mi sarei mai aspettato da un rapper contemporaneo.
Però il nuovo album di Joyner Lucas secondo me è un bel disco, che sicuramente merita più attenzione rispetto a ‘Might Delete Later’
‘Raising Hell’ è il titolo di un disco dei RUN DMC. Ed è il titolo del primo disco hip hop a diventare multi platino nel 1986, quando questo tipo di numeri contava davvero.
E in questo caso contava davvero perché fino a quel momento l’Hip Hop aveva sì compiuto i suoi primi passi ma non era ancora nemmeno lontanamente quel fenomeno che sarebbe diventato di lì a poco. Per colpa di questo disco, si dice.
Le cose curiose potrebbero essere riassunte nel fatto che questo disco vede alla produzione Rick Rubin, bianco, alle prese con la musica bianca inserita nell’Hip Hop perché Rubin ha cambiato le fonti.
Dal soul, dal funk e dalla disco si passa al rock. Sembra un dettaglio di poco conto, ma è uno di quelli più importanti.
Il disco esce l’anno in cui viene promulgato l’Anti Drug Abuse Act, esce durante la presidenza Reagan ed esce durante una delle intuizioni geniali di Russel Simmons e del suo team.
Il gruppo si presenta in scena con i rapper al fronte e dietro un DJ.
Zero ballerini.
Indossano Fedora, tute nere e scarpe Adidas.
Attorno a questo stile creano la propria community. Facendosi forza di questa appartenenza, Simmons offre un assist all’Amministratore delegato della Adidas. La marca, nel 1986, fatica a trovare spazio nel mercato delle sneaker in America soffocata da Nike, Reebok e Fila.
Simmons invita, quindi, Addias, a un concerto a New York dei RUN DMC che eseguono MyAdidas secondo il rituale di quel tour (e da allora per sempre).
Si firma un contratto, l’immagine di RUN DMC diventa l’immagine di Adidas, i conti tornano a sorridere, l’Hip Hop esce dagli Stati Uniti e diventa mondiale.
La furbizia nel modo di gestire gli affari attorno all’Hip Hop è qualcosa che o viene sottovalutata o viene mediamente vissuta come qualcosa che è una sorta di svendita degli ideali. Nulla di più sbagliato. Lo spiega bene Dan Charnas, lo spiega bene Rick Rubin quando insiste per inserire ‘Walk This Way’ con gli Aerosmith (allora band allo sbando in fatto di popolarità e reputazione nel mondo del rock che dopo successi clamorosi attraversava un periodo di stanca) e fare in modo che MTV dovesse accettare per forza di passare quel video con musicisti anche neri al suo interno come protagonisti principali.
Un primo passo, deciso, verso qualcosa che presto sfuggirà dal controllo perché il product placement dentro l’Hip Hop diventa qualcosa di estremo e in alcune discussioni divisivo.
Due lati.
Uno, quello di Clarence Lusane in “Rap Race and Politics”, un saggio dentro That’s the joint: the hip hop studies reader che riporta una situazione di inizio anni 90 (poco dopo, quindi, le scarpe dei Run DMC e grosso modo dall’altra parte della cosiddetta golden age)
Le aziende degli alcolici che già insistevano tantissimo nell’esporre i loro prodotti ai giovani afroamericani trovarono una spinta ulteriore da questo affermarsi dei rapper utilizzandoli per vendere i propri prodotti.
Se da una parte Public Enemy quando la McKenzie River usò la voce di Chuck D illegalmente in un loro spot, il rapper denunciò l’azienda per un danno pari a 5 milioni e incise ‘One Million Bottlebags’.
Dall’altra Ice Cube, Erick B & Rakim, Fab Freddie e Yo Yo che a quel tempo nemmeno beveva, vennero impiegati per le pubblicità delle birre ad alto tasso alcolico. A peggiorare la cosa, gli spot erano invasi di contenuti a suggestione sessuale per comunicare in qualche modo che la birra di quel tipo fosse afrodisiaca.
Due, quello di Dan Charnas in “The Big Payback”
Materialismo, volgarità e violenza non sono i mali dell’hip hop, ma i mali dell’America. Hip Hop è figlio dell'America, è il risultato della gioventù nera urbana senza restrizioni che trova la sua strada verso le masse dopo che si è vista negare l’accesso al mainstream e ai mercati per i neri.
La pressione culturale che ha creato il gangsta rap ha fatto anche aumentare in modo sorprendente l'imprenditoria nera. L’ostracismo riservato ai giovani neri da parte dei modi di comunicazione allora tradizionale ha creato una generazione di persone autosufficienti e sicure di sé stesse.
Ecco perché l’hip hop in sostanza ha rappresentato tantissimo per l’avanzamento economico, politico e sociale della Black America. De-segregare le stazioni radio e le televisioni, scalare il gotha di Hollywood, segnalare - sebbene non per tutti - che i leader del Nazionalismo nero avevano riposto le speranze nel posto giusto perché adesso ci saranno anche i neri nei punti nevralgici del tessuto dell’America.
Una storia che può essere vista come una storia di successo americano o una storia che racconta l’inizio di un’infinità di grane.
Una piccola cosa, qui, in fondo: ho pensato potesse essere utile inserire la “colonna sonora” degli episodi in una playlist che trovi sia su Spotify che su Tidal. Ci sono alcune omissioni dovute al fatto che non tutto è rintracciabile sulle piattaforme di streaming, ma credo possa dare un’idea. Il suggerimento, come al solito, è quello di partire da lì per andare ad approfondire i dischi per intero.
Se poi vuoi uscire dal “tema” hip hop ultimamente mi sono rimesso a scoprire del soul. E nei vagabondaggi ho (ri) trovato Norman Feels. Purtroppo non è disponibile sugli streaming, ma su Youtube uno dei suoi album lo si può ascoltare:
Se questa l’hai già sentita è perchè è stata usata da Freddie Gibbs in “$oul $sold $eparately” nel pezzo con Kelly Price, poi se ti ricorda qualcosa nei suoni… beh, questo è un disco uscito nel 1973 e in quegli anni lì il soul classico del New Jersey viaggiava su queste corde, spesso (che se ascolti bene hanno un profumo di base che si appoggia sulla psichedelia). E se ancora ti viene in mente Marvin Gaye resta solo da segnalare che gli arrangiamenti di questo disco omonimo sono curati dalla stessa persona: David Van De Pitte che li ha firmati insieme alla direzione di orchestra di tutto “What’s Goin’ On”.
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